Ci ritroviamo oggi, in questa chiesa, la chiesa del Gesù, per pregare, a trenta giorni dalla sua morte, Ciriaco De Mita. Abbiamo scelto di celebrare questa santa liturgia qui al Gesù, la chiesa vicina alla sede storica della Democrazia Cristiana, nella convinzione che quel che viviamo, che edifichiamo, i legami che stringiamo non solo non vengono annullati, inghiottiti dalla morte, ma sono parte di quella risurrezione della carne che per noi cristiani sta nel cuore della fede. Quanta storia della politica dei democristiani ha visto questa chiesa! La vicinanza fisica dei due luoghi ci spinge a ricordare quanto l’ispirazione cristiana abbia inciso nell’animo di Ciriaco De Mita anche nel versante dell’impegno politico.
Oggi, il nostro radunarci attorno all’altare è segnato anche dal ricordo – che si fa anche preghiera – di Ciriaco, un amico che abbiamo conosciuto e stimato, con il quale non è mancata neppure una appassionata dialettica perché la vita, anche quella della politica, non fosse fatta di parole, “Signore, Signore”, ma di fatti, di impegno per costruire una casa che fosse fondata sulla roccia. Ciriaco ha potuto farlo anche perché non è stato solo un uomo politico. Ha potuto farlo perché la sua politica è stata ispirata da qualcosa che veniva dall’esterno della politica: un po’ come la chiesa del Gesù dalla sede del partito? De Mita non a caso pensava – sono sue parole – che “la politica disumanizza, più la si riduce meglio è”. È l’espressione di una saggezza non comune in un uomo politico, il cui impegno assorbente spinge in genere – chi non ha una statura morale – ad esaltare tutto ciò che fa.
È bene oggi ricordare che la fede ha avuto un posto importante nella vita di Ciriaco. Non amava parlarne. In tante occasioni ha espresso le sue visioni e le sue idee, ma la fede era per lui – cito ancora – “una dimensione intima e discreta di cui preferiva non parlare”. La fede non coincideva per lui con quel clima “sacrale” in cui tutto, nel piccolo mondo rurale di Nusco, gli appariva immerso quando era bambino e adolescente. La fede per lui era piuttosto “una libera adesione personale” e una “radice profonda” cui continuare sempre a tornare. Il suo percorso di fede è stato segnato – in tempi diversi – dall’incontro con una serie di sacerdoti, che lui amava ricordare. Oltre a don Giuseppe Passaro, che per primo lo incoraggiò a studiare e a pensare, sono stati per lui importanti quelli che ha incontrato in Università Cattolica a Milano, come don Mario Giavazzi, mons. Carlo Colombo, don Filippo Franceschi e don Italo Mancini. La sua maturazione religiosa si è saldata, in modo sereno, a un’esuberante, talvolta tumultuosa, creatività intellettuale, alimentata da molteplici stimoli culturali.
Gli anni in cui ha frequentato l’università sono stati anni in cui il cattolicesimo italiano si veniva aprendo alla modernità non come esperienza conflittuale ma come dilatazione di orizzonti ricchi di promesse: i cattolici italiani sentivano allora di essere chiamati ad assumersi responsabilità sempre più grandi in un mondo in rapida trasformazione. Per De Mita politica voleva dire “risolvere i problemi” e richiedeva sia principi morali sia competenze adeguate. Di qui un approccio schiettamente laico alla politica, ma animato da valori profondi. Più volte ha ripetuto di non aver mai avvertito tensioni né tantomeno contrapposizioni tra la sua fede cattolica e le sue posizioni politiche, anche se più volte qualche ecclesiastico ha criticato le sue idee politiche o ostacolato la sua carriera. Penso che anche oggi ci sarebbe bisogno per il nostro paese, e non solo, di cattolici in politica che operano perché sentono il dovere – e perché no, anche un po’ l’orgoglio – di contribuire in modo incisivo alla costruzione della città terrena. Alla costruzione di quella casa fondata sulla roccia di cui abbiamo ascoltato dal Vangelo.
C’è chi a Ciriaco de Mita ha attribuito uno spirito contestatore, che in lui si univa a una timidezza nascosta da un’aggressività più apparente che reale. Si trattava, comunque, di una contestazione costruttiva. Fin da giovanissimo, ha fatto parte della Democrazia cristiana. Ma per lui l’aspetto organizzativo non ha avuto un’importanza preminente (almeno finché non ne è diventato segretario). Per lui, politica voleva dire anzitutto una costruzione culturale che il partito doveva poi realizzare. Insomma non era di coloro che dicono “Signore, Signore”, pensando di avere la verità in mano. Per De Mita, come ha detto molte volte, il partito “non è la Verità”, semmai è una “verità relativa, nel senso che è ricerca, alla luce di valori e di principi fermi, di soluzioni inevitabilmente contingenti”. Insomma, uno strumento al servizio non di se stesso ma di un obiettivo più grande che per lui significava: sviluppare la democrazia. La Democrazia cristiana – così pensava – non doveva lavorare per mantenere o ampliare il suo potere, ma per stabilire – in collaborazione con altri, compresa l’opposizione – regole comuni che permettessero una democrazia compiuta, comprendente anche l’alternanza di governo. Da questo nasceva la sua attenzione – non comune tra i politici del suo tempo – ai problemi istituzionali, volta non al perseguimento di un interesse di parte ma alla costruzione di una “casa comune”. Tale preoccupazione è stata anche alla base del suo speciale rapporto con Aldo Moro e che dovrebbe essere anche oggi l’obiettivo fondamentale di qualunque impegno politico.
A volte, una visione eccessivamente intellettuale della politica gli ha fatto commettere errori (altre volte invece ha saputo farsi carico con senso di responsabilità degli errori fatti da altri). Ma anche se talvolta esprimeva un pensiero molto complesso – scherzando, affermava che lui stesso non sempre capiva ciò che diceva – i problemi che cercava di risolvere sono stati quelli, molto concreti, degli italiani e delle italiane del suo tempo. È stato un attento osservatore della società italiana, dei suoi cambiamenti e degli squilibri che ne sono derivati. Ha avuto un’attenzione particolare alle aree più fragili del nostro Paese, a partire dal Mezzogiorno anche se non sopportava un meridionalismo “protestatario, lamentoso, anti-nordista”. Le sue battaglie avevano valenze non solo politiche ma anche morali. L’opposizione allo strapotere della televisione commerciale rispondeva alla preoccupazione per le conseguenze negative che in effetti ci sono state.
Travolto anche lui dalla fine del suo partito e della prima Repubblica, ha continuato a combattere, forte anche di un rispetto e di una stima da parte di molti che non sono venuti meno. Lo ha fatto lavorando – fino all’ultimo – a una riforma istituzionale che, se accolta, avrebbe aiutato la politica italiana a evitare molti passi sbagliati nei decenni successivi. Anche dopo il 1994, benché fosse considerato espressione di un passato da dimenticare, non si è arreso e ha continuato a fare politica, con il rigore intellettuale e morale che gli erano propri. Tra le molte lezioni che ci ha lasciato vorrei ricordare oggi, una sua limpida affermazione del 1984: “Noi democristiani concepiamo i rapporti internazionali soprattutto in termini di pace”. La pronunciò non solo denunciando un pericolo innalzamento della tensione tra Est ed Ovest ma anche le tante “guerre dimenticate” in Africa e altrove. E sull’Europa denunciava il pericolo di un ritorno dello spirito nazionalistico. Quarant’anni dopo è un insegnamento di grande attualità.
Cari amici ho voluto ricordare qualche tratto della vita di Ciriaco De Mita mentre sale al Signore la nostra preghiera con lui, nella certezza che le cose belle, le cose buone che ha fatto per il bene del Paese, dell’Europa e del mondo, sono parte di quella casa del cielo che Ciriaco ha iniziato ad edificare già da questa terra. Così l’Apocalisse: “Scrivi: d’ora in poi, beati i morti che moriranno nel Signore…essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14,13).