Care sorelle e cari fratelli,
abbiamo ancora nei nostri occhi la visione di pace della piazza del Campidoglio che ha offerto una luce di speranza nel cielo buio di un mondo che sta vivendo un tempo particolarmente difficile. E’ stato un dono prezioso per tutti. E al Signore va il nostro ringraziamento perché continua ad accompagnare la nostra vita e a renderla preziosa per il servizio al Vangelo della pace. Dalla Piazza del Campidoglio, da dove partivano le vie consolari romane, abbiamo visto convergere verso il cielo questa volta le invocazioni di uomini e donne di fedi diverse per ottenere da Dio la desiderata pace per tutti i popoli del mondo.
E’ in questo orizzonte di amore e di gratitudine a Dio, care sorelle e cari fratelli, che vorrei iscrivere anche la piccola vicenda dei miei 50 anni di prete che questa sera entrano nel ringraziamento della Santa Liturgia. Sono particolarmente lieto di ricordarli in questa Basilica di Santa Maria in Trastevere che, assieme alla piccola chiesa di Sant’Egidio, li raccolgono quasi tutti. Certo non dimentico i miei primi passi a Casalpalocco, dove sono giunto appena ordinato prete in un tempo – era il 15 marzo del Settanta – pieno di speranze. Come non dimentico i dodici anni di vescovo nella Diocesi di Terni-Narni-Amelia, una terra segnata dalla presenza di san Francesco e dal martirio dei suoi primi cinque frati.
Sono però queste due chiese – quella di Sant’Egidio, prima casa della Comunità, e questa Basilica, la casa più grande, casualmente unite da Via della Paglia – sì, queste due chiese che mi hanno visto crescere in questi cinquanta anni di prete. Dai due altari si sono alzate le preghiere con gli amici di Sant’Egidio, da essi siamo partiti per comunicare il Vangelo e qui tornavamo e torniamo la sera per la preghiera. Un vecchio prete romano che celebrava al mattino la Messa qui nella Basilica – forse toccato anche dalla bellezza soprattutto del mosaico absidale – amava dire che il prete si accorda alle chiese nelle quali celebra. Cito alcune sue parole che mi colpirono molto: “Da qualche giorno dico messa la mattina a Santa Maria in Trastevere. E se per caso il sole nascente riesce, anche lui ma lui dalle finestre, a entrare in quella chiesa e per quell’ora, io non vi dico, amici, che incendio, diventa il mosaico dell’abside: una cosa tutta di fuoco e di luce, come avrebbe potuta vederla in visione soltanto un san Giovanni a Patmos”
Ecco, vorrei dire che i miei 50 anni di prete si sono “accordati” – nel senso musicale del termine, comprese anche le stonature – a questi due altari, a queste due chiese. La Comunità, restaurandole anche nelle mura perché mostrassero tutta la loro bellezza anche artistica e soprattutto abitandole ha ridato vita ad ambedue coinvolgendole, con il carico di tutta la loro storia secolare, nel carisma di Sant’Egidio, una comunità nata a Roma e da essa segnata. Giovanni Paolo II – a lui va la mia, la nostra, gratitudine per l’amore che ha avuto per la Comunità, per averci dato questa Basilica, ed è stato lui a volermi vescovo esattamente venti anni fa – ci diceva: “Dove ci sono le Comunità di sant’Egidio – anche non a Roma – sono sempre di Roma”. Per me, essere prete di Roma, formato nel seminario romano e poi vivere a Trastevere, dove è nata la prima comunità cristiana di Roma – questo l’ho capito sempre meglio andando avanti negli anni – ha significato ricevere un’impronta “romana” anche nel modo di essere prete, con un amore grande per la città e assieme la passione per l’universalità del Vangelo.
Oggi Sant’Egidio – la Comunità e il santo di cui ricordiamo quest’anno i 1300 anni della morte – è conosciuta nel mondo come un luogo ove i poveri sono come di casa, e la Basilica di Trastevere come un santuario di preghiera per la pace tra i popoli, un caro amico la chiamò l’ONU di Trastevere. La mia vita di prete è legata alla Comunità come quella di un figlio alla madre e alla casa in cui abita. Ricordo bene il primo incontro con Andrea Riccardi nel dicembre del 1970. Ero prete da pochi mesi. E la prima esperienza di prete a Casalpalocco si scontrava con una vita parrocchiale che non riscaldava i cuori. Quell’incontro fu per me l’inizio di un cammino di grazia: avevo scorto i germogli della primavera suscitata dal Concilio e fui attratto dalla passione – vivacissima già allora, anzi esuberante – di comunicare il Vangelo nelle periferie di questa nostra città. E poi via via, da quelle di Roma alle periferie del mondo.
Oggi ringrazio il Signore per questi miei 50 anni di prete – e venti di vescovo – vissuti nella Comunità il cui carisma ha reso migliore il mio essere prete e vescovo al servizio della Chiesa – nei vari compiti che il Papa mi ha affidato – e al servizio del mondo. Tutto è stato grazia per me: ero un bambino di un piccolo paese – Boville – di una piccola provincia – Frosinone – venuto a Roma per essere prete in questa città. In quegli anni – gli anni Cinquanta – il Papa aveva chiesto alle diocesi italiane di inviare preti in una Roma “quasi terra di missione”. Venni come fidei donum. E, dopo gli anni della formazione, tutti al Seminario Romano, la grazia di essere il primo prete di questa straordinaria famiglia di Sant’Egidio, immerso in una fraternità larga, senza confini che tutti ci avvolge con una attenta sincera amicizia: anche voi carissimi amici e amiche che siete venuti per ringraziare con me il Signore. Ricordo la scelta di celebrare la liturgia nelle periferie qui a Roma, iniziando da Primavalle, nella cappellina che significativamente abbiamo dedicato a San Francesco. Era la scelta missionaria di vivere il Vangelo tra e con i poveri. E le donne di periferia sono state le prime a rispondere a questa chiamata del Vangelo.
Il mio essere prete è stato sempre accompagnato dalla presenza di laici nella mia vita: e questo mi ha fatto bene. Negli anni poi è cresciuta anche una fraternità di preti, che recentemente è stata riconosciuta canonicamente da papa Francesco, che ringrazio per il questo dono. Tra i primissimi preti della Comunità saluto qui don Ambrogio, oggi vescovo di Frosinone e ricordo Matteo Zuppi, oggi cardinale, il primo giovane della Comunità ad avere intrapreso la strada del sacerdozio. Essere preti nella vocazione della Comunità unisce in maniera chiara i due altari, quello dell’Eucarestia e quello dei poveri: a Natale, nel tradizionale pranzo con i poveri, questa unione splende anche visivamente in tutta la sua bellezza attorno al Bambino ch’è nato. Non è più vero che “non c’è posto per loro nell’albergo”, come scrive l’evangelista. E’ la festa dell’amore di Dio e dei poveri.
E’ una realizzazione davvero singolare del Vangelo che ci è stato annunciato in questa santa liturgia: il legame tra l’amore di Dio e l’amore per il prossimo. Da questo comandamento – dice Gesù – “dipende tutta la Legge e i profeti”. E’ una pagina evangelica che salva chi ama e che rende migliore la vita di chi è amato. Sì, la strada per arrivare a Dio incrocia sempre quella dei poveri: aiutando loro si aiuta Dio, difendendo loro si difende Dio. Le parole del Libro dell’Esodo che abbiamo ascoltato confermano questo amore quando ci chiedono di accogliere lo straniero l’orfano e la vedova. Dio stesso si è messo dalla loro parte: ascolta il loro grido e farà giustizia. Da questi due comandamenti dipende anche la nostra stessa vita e quella di tutte le terre.
Chiediamo al Signore che il Suo amore continui a guidarci. Questo amore – quello di Dio e dei poveri – scrive l’apostolo – tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. E ci apre la porta del Regno già da ora per non finire mai. Amen!