di Domenico Agasso
CITTÀ DEL VATICANO. Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ieri Luigi Manconi dalle pagine de La Stampa ha lanciato un appello al Papa affinché intervenga per Alfredo Cospito, detenuto al 41bis, in sciopero della fame nel carcere di Sassari da ottobre: che cosa ne pensa?
«La sorte dei detenuti deve riguardare tutta la società. Ci deve riguardare. In questo senso, bene ha fatto l’amico Luigi Manconi a sollevare l’attenzione su Alfredo Cospito. Ora Cospito è in condizioni gravissime sia per le conseguenze di una caduta, sia per la profonda debilitazione fisica provocata dallo sciopero. Manconi si appella a papa Francesco, non perché si debba intromettere nelle questioni carcerarie italiane ma perché questa vicenda non cada nell’oblio».
Qual è la sua personale opinione?
«Vorrei che un analogo appello giungesse al Ministro della Giustizia, ai magistrati, al governo nella sua interezza, perché ci sia sempre un “di più” di umanità nell’applicazione della legge, per non dimenticare il legame tra la giustizia e la possibilità di ripensamento e riscatto per i colpevoli».
Intravede mancanze nella gestione di questo caso?
«In questi nostri tempi dobbiamo combattere l’oblio e dobbiamo riaffermare il valore della vita umana, sempre, in qualunque condizione. La giustizia si basa sulla pena e sulla certezza di questa. Qui, non c’è dubbio, una pena è stata erogata al termine di un iter giudiziario in un paese democratico. Ma dopo, non possiamo lasciare i carcerati lì, dove si trovano, in quel limbo di quattro mura dove, se va bene, se sono fortunati, trovano una situazione favorevole ed hanno delle possibilità di riflettere, redimersi, riscattarsi, lavorare o studiare, qualificarsi, per vivere una seconda vita, positiva, una volta terminata la pena. Ovvero, se non sono fortunati, si trovano in condizioni poco umane e la pena non diventa motivo o possibilità di riabilitazione ma ulteriore condizione afflittiva, nella dimenticanza, nell’oblio, nell’indifferenza».
Di che cosa c’è bisogno?
«Non solo di applicare la Costituzione e la più avanzata legislazione, quando dispone che il carcere sia strumento di riabilitazione. Ma dobbiamo ricordarci che il valore della vita è un bene supremo. E non perché lo dice la Chiesa, ma piuttosto perché è un valore ragionevole, è un valore di civiltà, è alla base di ogni società che abbia a cuore il progresso umano, culturale, sociale, economico, dei propri concittadini».
Anche quando sbagliano gravemente?
«A maggior ragione, proprio quando sbagliano ed hanno bisogno di espiare i torti commessi, ma anche di potersi redimere per la società e per loro stessi».
Lei conosce Cospito? Che effetto le fa saperlo nelle condizioni attuali?
«Non lo conosco di persona. Però colpisce che un uomo si infligga un durissimo sciopero della fame, che lo porta a mettere in pericolo la vita. E dico come cristiano, come cittadino e come persona, che non è possibile. Certamente tutte le leggi sono state rispettate nel suo caso, come in tanti altri. Ma l’opportunità di riscatto, di revisione di vita, di un supplemento di umanità, deve essere offerta a tutti e non solo a qualcuno».
Le vengono in mente riferimenti biblici?
«Pensiamo a Caino, omicida, quando dice: sono forse io il guardiano di mio fratello? Ebbene sì, la grande storia della Bibbia ebraica e del cristianesimo, è una vicenda umana di rapporti, di relazioni, con la parola di Dio che invita il popolo ebraico e tutta l’umanità a guardare agli altri esseri umani come fratelli e sorelle, non degli sconosciuti. E in ogni incontro c’è una possibilità di vita in più, una relazione aggiuntiva, una possibilità di umanità. La democrazia diventi per noi non solo espressione di un regime di benessere economico e materiale, ma sinonimo di umanità e di attenzione agli altri, di rispetto per il valore della vita umana».
Come descriverebbe la situazione attuale della giustizia e delle carceri italiane?
«Qualche anno fa, ragionando proprio con Manconi – riflessioni poi confluite nel nostro libro “Il senso della vita. Conversazioni tra un religioso e un pococredente” (Edizioni Einaudi) – concordavamo nel sottolineare che non possiamo retrocedere sulla concezione redentiva del carcere e della pena. È una questione di civiltà. La distrazione da tale obiettivo diventa complicità con una cultura giustizialista e, alla fine, crudele. Le carceri devono essere la cartina al tornasole della capacità di esercitare una vera giustizia, dove la velocità del giudizio e la certezza della pena si coniugano con misure sagacemente pensate per recuperare le persone e reinserirle nella società. Lo snodo essenziale è la relazione».
Ci spiega?
«Tutti sono protagonisti, dagli operatori dell’amministrazione alle famiglie dei detenuti, agli stessi detenuti. Vale per tutti, e anche nelle carceri: isolamento non deve voler dire solitudine. Possono essere necessarie forme di isolamento: ma guai a favorire la solitudine! In questo campo vanno trovate e investite risorse sulla formazione degli operatori, sul potenziamento del volontariato, sugli strumenti tecnologici che possano consentire ai detenuti di studiare e acquisire professionalità. E per il reinserimento nel mercato del lavoro una volta scontata la pena».
Qual è il pensiero del Pontefice su questi temi?
«Papa Francesco nel settembre 2019 in piazza San Pietro, nel discorso rivolto al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile, sottolineava la necessità di fare in modo che la pena non comprometta il diritto alla speranza, che siano garantite prospettive di riconciliazione e di reinserimento. Mentre si rimedia agli sbagli del passato, non si può cancellare la speranza nel futuro».