Anzitutto vorrei precisare che la Chiesa cattolica non è che abbia un pacchetto di verità prêt-à-porter, preconfezionate, come se fosse un distributore di pillole di verità. Il pensiero teologico si evolve nella storia, in dialogo con il Magistero e con il vissuto del popolo di Dio (sensus fidei fidelium), in una dinamica di reciproco arricchimento. L’intervento e la testimonianza della Chiesa, in quanto anch’essa partecipa nel dibattito pubblico, intellettuale, politico e giuridico, si collocano sul piano della cultura e del dialogo tra le coscienze. Il contributo dei cristiani si dà all’interno delle differenti culture, né sopra – come se essi possedessero una verità data a priori – né sotto – come se i credenti fossero portatori di un’opinione rispettabile, ma svincolata dalla storia, «dogmatica» appunto, dunque inaccettabile –. Tra credenti e non credenti c’è una relazione di apprendimento reciproco.
Pensiamo ad esempio a quanto avvenuto per la questione della pena di morte: per il cambiamento delle condizioni culturali e sociali, per la maturazione della riflessione sui diritti, il Papa ha modificato il catechismo. Mentre prima non si escludeva che ci fossero delle circostanze per cui la si poteva legittimare, oggi non la consideriamo più ammissibile, in nessun caso. In quanto credenti ci poniamo quindi le stesse domande che riguardano tutti, nella consapevolezza di trovarci in una società democratica pluralista. In questo caso, circa la fine della vita (terrena), ci troviamo come tutti davanti a una domanda comune: come è possibile raggiungere (insieme) il modo migliore di articolare il bene (piano etico) e il giusto (piano giuridico), per ciascuno e per la società?
Per rispondere a questa domanda un primo punto fondamentale è come intendiamo la libertà. La riflessione teologica ha maturato una concezione della persona che parte da un dato per tutti riconoscibile, cioè che noi siamo fin dall’inizio inseriti in un contesto di relazioni che ci rende solidali gli uni con gli altri. La nostra identità personale è strutturalmente relazionale. Ce ne siamo accorti con evidenza quasi brutale durante la pandemia: i comportamenti di ciascuno hanno (avuto) ricadute sugli altri. Siamo tutti interdipendenti, legati gli uni agli altri.
Anche la vita umana, che ognuno di noi (in quanto generato) riceve da altri, non è quindi riducibile solamente a oggetto di una decisione che si limita alla sfera privata e individuale: ne siamo responsabili verso altri, su cui le nostre scelte hanno un impatto (e viceversa). La libertà umana, per esercitarsi correttamente, deve tener conto delle condizioni che le hanno consentito di emergere e assumerle nel suo operare: in quanto preceduta da altri, è responsabile di fronte a loro. Questo è il motivo per cui l’autodeterminazione è fondamentale, ma allo stesso tempo non è assoluta, ma sempre relativa (agli altri). Per quanto riguarda le decisioni sul morire, questo non significa ritornare al vecchio paternalismo medico, bensì sottolineare un’interpretazione dell’autonomia relazionale e responsabile.
Accentuare astrattamente l’autodeterminazione porta a sottostimare la reciproca influenza che si realizza attraverso la cultura condivisa e le circostanze concrete: richieste apparentemente libere sono in realtà frutto di un’ingiunzione sociale [spesso sotto la spinta di convenienze economiche]. Come si vede dall’esperienza dei Paesi in cui è consentita la «morte (medicalmente) assistita» la platea delle persone ammesse tende a dilatarsi: ai pazienti adulti competenti si aggiungono pazienti in cui la capacità decisionale è compromessa, talvolta gravemente [pazienti psichiatrici, bambini, anziani con decadimenti cognitivi]. Sono così cresciuti i casi di eutanasia involontaria e di sedazione palliativa profonda senza consenso. Il risultato complessivo è che assistiamo a un esito contradditorio: in nome dell’autodeterminazione si arriva a comprimere l’esercizio effettivo della libertà, soprattutto per coloro che sono più vulnerabili; lo spazio dell’autonomia viene gradualmente eroso.