Pubblichiamo il testo dell’intervento del Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, alla presentazione del Rapporto annuale dell’INPS che si è tenuta il 12 dicembre a Milano, presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Desidero ringraziare in primo luogo il presidente dell’INPS e il rettore dell’Università Cattolica per questa opportunità di discutere sui dati per capire il nostro frutto ed essere previdenti, per non buttare via le opportunità, per smettere di continuare nello sfruttamento delle risorse per l’oggi togliendole così a chi verrà domani. La previdenza richiede sempre una visione, per sfuggire al presente e allargare lo sguardo alle generazioni future. È la tirannia della prestazione, dell’affermazione di sé e della verifica di questa che dobbiamo combattere. Ci troviamo di fronte ad una fotografia del nostro futuro! Non oroscopi o qualcosa di probabile, ma quello che avverrà se non ci saranno interventi in grado di cambiare. C’è da domandarsi come facciamo a non decidere nonostante queste evidenze, come ad esempio la necessità che abbiamo di mano d’opera, mentre continuiamo a enfatizzare la colpevole ricostruzione che criminalizza lo straniero. Nessuno nega il problema della violenza, ma questa cresce proprio quando la legalità non è scelta con lungimiranza e capacità, tanto da favorire l’illegalità che si combatte solo facendo funzionare un sistema di accoglienza e di integrazione degna di un Paese tra i più ricchi al mondo e che vuole guardare al suo futuro e non solo alla conservazione, impossibile, del presente. Il Rapporto INPS fa emergere alcune questioni importanti del mondo giovanile in questo contesto storico e mette in rilievo alcune istanze educative che non possiamo trascurare.
- Il dialogo intergenerazionale. Il tema «giovani» non può essere affrontato spacchettandolo dalla situazione di separazione tra generazioni che stiamo vivendo. Sembra che ciascuna generazione abbia attenzione solo ai propri interessi senza avere la preoccupazione di un bene comune più grande. Una società che invecchia tende ovviamente a trattare i giovani come una minoranza ininfluente. La questione giovani riguarda gli adulti e la loro capacità di interagire con la mentalità, la cultura e le innovazioni sociali che provengono dal mondo giovanile. Non aiutano adulti che si chiudono. Serve strutturare una società a partire dal dialogo tra le generazioni, dalla reciproca capacità di ascolto e di condivisione, di immaginazione del futuro e di sostegno reciproco. Gli atteggiamenti tra le diverse generazioni sono fondamentali. Per questo, le famiglie devono sentirsi coinvolte in un progetto di welfare generativo, sia perché vanno supportate nel loro compito educativo, sia perché possono offrire un contributo per favorire quel cambio di passo ricordato dalla relazione del Presidente INPS: «La risposta alle nuove esigenze e ai nuovi bisogni può venire dal welfare generativo. Un approccio che prevede il passaggio da un sistema focalizzato sulla mera gestione delle risorse pubbliche e sul pagamento delle pensioni, ad un sistema in grado di personalizzare le prestazioni dell’Istituto, aumentando la capacità di andare incontro alle reali esigenze delle persone. In pratica, si tratta di garantire una presa in carico e un accompagnamento continuo dei cittadini, a seconda dei bisogni che emergono nel corso della loro vita». Questi processi culturali vanno preparati per tempo, se non si vuole che finiscano per essere incompresi o diventino un boomerang rispetto alla mentalità sempre più vecchia del «si è sempre fatto così».
- Le ferite sanguinanti. In Italia sono oltre due milioni i Neet (i giovani che non studiano e non lavorano) tra i 15 i 34 anni, mentre il mismatch – ossia il disallineamento tra domanda e offerta – riguarda circa un giovane su due. Anche se la quota media di coloro che hanno tra i 20 e i 24 anni e non hanno un lavoro, né frequentano un corso di istruzione formazione, è diminuita dal 32% al 21% tra il 2016 e il 2023. Tuttavia, mentre le differenze di genere sono relativamente piccole per i giovani di età compresa tra i 20 e i 24 anni, il tasso di Neet è più elevato per i giovani di età compresa tra i 25 e i 29 anni con il 31% delle donne che non studiano e non lavorano contro il 20% degli uomini. È quanto emerge dal rapporto Ocse Education at a glance La percentuale di giovani tra i 25 e i 34 anni senza titolo di studio secondario superiore nel nostro Paese è diminuita del 6% dal 2016 e ha raggiunto il 20% nel 2023, ma rimane comunque al di sopra dell’Ocse (la media è del 14%). L’istruzione dei genitori poi ha un forte impatto sul rendimento scolastico dei figli: in Italia il 69% dei 25-64 anni che hanno almeno un genitore con un titolo terziario, ovvero la laurea, ha conseguito la laurea (o un titolo equivalente), mentre il 37% degli adulti i cui genitori non hanno raggiunto titolo di studi superiori, non sono riusciti neppure a concludere le scuole superiori e a ottenere la maturità.
Inoltre, a settembre il tasso di disoccupazione è stabile al 6,1%, quello giovanile sale al 18,3% (+0,3 punti). Lo comunica l’Istat segnalando che il numero di persone in cerca di lavoro diminuisce (-0,9%, pari a -14mila unità) tra gli uomini e tra chi ha 35 anni o più, mentre aumenta tra le donne e gli under 35. Il numero di inattivi cresce (+0,4%, pari a +56mila unità) per uomini, donne e tutte le classi d’età, diminuendo solo tra i 25-34enni. Il tasso di inattività sale al 33,7% (+0,2 punti). Nel terzo trimestre – rispetto al secondo – le persone in cerca di lavoro scendono dell’8,5%, pari a -147mila unità mentre gli inattivi aumentano dell’1,1%, pari a +138mila unità. Rispetto a settembre 2023, diminuisce il numero di persone in cerca di lavoro (-21,4%, pari a -423mila unità) e cresce quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (+2,8%, pari a +337mila).
I dati rilevano quindi la categoria giovani come una delle più fragili insieme alle donne. Essere giovani oggi in Italia significa stare sulla soglia con il rischio di cadere nella condizione di povertà. Lo confermano anche i dati circa i giovani che lasciano il nostro Paese per cercare fortuna all’estero.
Il Rapporto italiani nel mondo 2024 curato dalla Fondazione Migrantes, recentemente presentato, mostra che dal 2020 continua la crescita di chi sceglie di risiedere fuori dei confini nazionali (+11,8% dal 2020). Oggi questa comunità è composta da oltre 6 milioni e 134 mila italiani all’estero, è sempre più giovane e dinamica. Il sud resta la principale terra di partenza, con la Sicilia che si conferma nel 2024 la regione con la comunità di iscritti Aire più numerosa (+826 mila), seguita da Lombardia (+641 mila) e Veneto (+563 mila). Il 45,8% degli iscritti è meridionale (oltre 2,8 milioni). Oltre 2,3 milioni sono, invece, del Settentrione (il 19% sia per il Nord-Est che per il Nord-Ovest) e più di 966 mila gli iscritti del Centro Italia (15,7%). Ma le partenze interessano sempre più l’intero territorio nazionale e, di conseguenza, riguardano cittadini figli di processi migratori plurimi (dal Sud al Centro-Nord Italia e dal Centro-Nord a oltreconfine) e per i motivi più variegati: dalle famiglie che si spostano, alla mobilità per studio, dai trasferimenti per lavoro ai ricongiungimenti familiari. Viviamo una stagione complessa che non può essere affrontata con superficialità. Esiste un problema “aree interne” che avendo numeri poco significativi rischiano di rimanere al traino a livello economico e ignorati a livello politico.
- Il lavoro al bivio. Il lavoro giovanile si caratterizza anche per il disallineamento (a cui si può rispondere con un forte impegno di formazione) e per le dimissioni da un lavoro che non soddisfa (a cui si deve rispondere con una visione aperta del lavoro e con opportunità personalizzanti). Il fenomeno del mismatch rappresenta un costo enorme per l’economia italiana, stimato in 44 miliardi di euro nel 2023, pari al 2,5% del Pil nazionale, secondo dati diffusi da Yliway. Il fenomeno paradossale sta nel fatto che il lavoro c’è, ma mancano i lavoratori con le competenze adeguate. C’è una crescente richiesta di figure professionali altamente specializzate, soprattutto in ambito scientifico, tecnologico, ingegneristico, matematico e nella transizione digitale, a fronte di un’offerta carente che fatica a tenere il passo con le esigenze del mercato. Le cause di questo divario sono molteplici e complesse. Tra queste, spiccano: denatalità, abbandono scolastico e Neet. La carenza di giovani che intraprendono percorsi di studio e formazione – con il 21% l’Italia è al secondo posto in Europa dopo la Romania per la presenza di Neet – si traduce in una minore disponibilità di figure professionali qualificate. Mancanza di investimenti in istruzione e ricerca: l’Italia investe meno della media europea in questi settori cruciali, soprattutto in ambiti strategici come l’educazione – il 4,2% del Pil rispetto a una media Ocse del 5,1% – la tecnologia e la sanità. Lentezza nell’introduzione di nuove competenze: i settori tradizionali faticano ad adattarsi alle nuove esigenze del mercato, mentre quelli più innovativi richiedono competenze che il sistema formativo non riesce ancora a fornire in modo adeguato. È fondamentale investire nella formazione continua e nello sviluppo di competenze trasversali, come la capacità di problem solving, il pensiero critico e la creatività.
Il disallineamento trova un allontanamento della soluzione nelle ideologie anti-immigrazioni, che, a forza di chiudere sulla cittadinanza, non consentono percorsi di integrazione sani e capaci di portare benefici alla società e all’economia. L’integrazione va pianificata e non può avvenire in modo casuale.
Le dimissioni dal lavoro, infine, ci ricordano la necessità di superare forme di contratto scadenti e disumane, perennemente precari. La dignità del lavoro va riconosciuta accrescendo la qualità dell’offerta senza lamentarsi del rifiuto di contratti da fame e non all’altezza della dignità umana. I giovani guardano al lavoro come un aspetto della vita e non come all’unico criterio di soddisfazione della loro esistenza.
- Le trasformazioni culturali. Non possiamo ignorare le trasformazioni culturali e sociali in atto nel mondo del lavoro e nella fascia giovanile della popolazione. L’Italia è segnata da una serie di aziende che minacciano la chiusura per i costi del lavoro, con il rischio di aumentare la guerra dei poveri. Il capitalismo anonimo delle multinazionali tende a spostare la produzione dove la manodopera costa meno rispondendo alle domande di guadagno degli investitori prima ancora che dalla giustizia verso i lavoratori. Tutto ciò ha un impatto culturale sul valore del lavoro, che viene svilito a interesse e non viene valorizzato come collante della vita sociale di un Paese (come suggerisce molto bene l’art. 1 della Costituzione).
L’impegno concreto che riguarda tutti, comunità cristiana e società civile, è quello di formare alla cura delle relazioni. È fondamentale per avere chance nei luoghi di lavoro. Anche la sicurezza ne beneficerà, se vi sarà qualcuno capace di dare priorità ai problemi sociali piuttosto che agli interessi individuali. L’attuale cambio culturale richiede di abitare la complessità e di ragionare in termini di sicurezza sul lavoro, che combatte le forme di nero e di illegalità, e che coglie gli investimenti di prevenzione degli incidenti sul lavoro come una alta forma di tutela della vita umana.
Su questi punti si può e si deve lavorare. Ci aspetta un compito educativo di ampio respiro, capace di valorizzare le persone, mettendole al centro di un progetto di rinascita. Non ci sta aiutando la demografia, sul cui investimento la politica non deve essere timida. Si tratta di una scelta che porterà benefici alle future generazioni.