Il 17 dicembre il Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, ha partecipato al Convegno “Chiesa e democrazia. A ottant’anni dal Radiomessaggio di Pio XII per il Natale 1944”, organizzato a Roma presso l’Istituto Sturzo. Di seguito il testo del suo intervento, intitolato “Chiesa e democrazia ieri e oggi”.
Papa Francesco ha indicato la strada dell’ascolto non per omologarsi al pensiero dominante, ma per parlare al cuore delle persone, comunicare con efficacia e con linguaggio comprensibile il messaggio evangelico, rispondendo alle domande reali e non a quelle presunte. Dialogo è rinuncia all’identità solo per chi non ha chiara la sua. Parlare sopra gli altri, urlare, polarizzare per spiegarsi è proprio di chi teme il confronto e vuole imporsi perché non sa collaborare e costruire. Il Sinodo, sia quello della Chiesa universale sia quello della Chiesa in Italia, ha cercato anzitutto di ascoltare e fare sentire “ascoltati”, prese sul serio le ferite, le incertezze, le domande della nostra generazione. Attraverso l’ascolto la Chiesa entra nella storia e nelle sue contraddizioni. Il radiomessaggio di Pio XII del Natale 1944 costituisce ancora oggi una importante lezione di ascolto attento della realtà. Quella di allora era una “spaventevole realtà” fatta di “brutalità, iniquità, distruzione, annientamento”[1]. L’Europa, il mondo erano in guerra dal 1° settembre 1939: più di cinque lunghi anni di guerra, troppi. “L’alba del Natale – diceva il Papa – si leva su campi di battaglia sempre più estesi, su cimiteri ove sempre più numerose si accumulano le spoglie delle vittime, [..] sulle rovine di città dianzi fiorenti e prospere […] Quale desolazione! […] Non vi sarebbe più dunque speranza per l’umanità?”. È la descrizione drammatica di quella terribile carneficina (impareremo mai a evitarla? Per cambiare dobbiamo sprofondare nell’abisso della guerra? E dell’ansia di speranza, dell’attesa della pace. In realtà sono parole terribilmente attuali. Il mondo è oggi nuovamente dominato dalla guerra come non accadeva dal 1945: in Ucraina da più di mille giorni, a Gaza, in Libano, in Siria, in Sudan e in tanti altri Paesi. I pezzi della guerra mondiale sembrano saldarsi in una pandemia che non suscita analoga reazione e solidarietà internazionale come avvenne per sconfiggere il Covid. Anzi. La guerra appare la “normalità” e si fa fatica a organizzare la comunità internazionale. Il radiomessaggio di Pio XII annunciava la speranza che viene da Betlemme, ma il Papa sapeva di parlare a “cuori ottenebrati, afflitti, abbattuti”. La speranza cristiana non evita i problemi, come l’ottimismo che sembra non rendersi conto della complessità dei problemi e della difficoltà delle soluzioni, bensì sfida anche gli orizzonti più cupi, è sempre una spes contra spem, per questo spes. La Chiesa non si arrende alle ragioni della guerra e cerca, con impazienza e libertà, le vie della pace. Nel 1944 Pio XII si interroga anche – in modo inusuale e con coraggio – sui modi concreti attraverso cui questa speranza può cambiare il mondo. È una strada che dobbiamo cercare di percorrere anche oggi.
Dopo aver parlato dell’ordine internazionale post-bellico nel 1941 e di una nuova giustizia sociale, nel 1944, affronta le grandi questioni politico-istituzionali e, per la prima volta nel magistero della Chiesa, manifesta la preferibilità di uno specifico sistema politico: la democrazia. Proprio quel sistema politico che il fascismo e il nazismo avevano soffocato portando il mondo nella catastrofe bellica. Nell’inverno più duro dall’inizio del conflitto, il Papa si chiede da dove può arrivare la pace. È convinto che, mentre gli eserciti si combattono in modo atroce, siano disponibili energie profonde contro la guerra. Ma bisogna attivarle. Pensa che “se non fosse mancata la possibilità di sindacare e di correggere l’attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato” nel conflitto. Non è casuale, aggiunge, che nel corso della guerra sia diventata sempre più forte la “tendenza democratica”[2]. Anche il Papa è convinto che per evitare “il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie”. La guerra rende urgente un sistema politico che eviti scelte delle élite disancorate dalla volontà popolare: bisogna che le classi dirigenti ascoltino i loro popoli. Ecco perché la democrazia è diventato un problema di “somma importanza […] per il pacifico progresso della famiglia umana”.
Queste convinzioni hanno ispirato i cattolici di allora – ne ho parlato a proposito del Codice di Camaldoli – e, grazie anche a loro, la stessa Costituzione italiana. Dal 1944 il tema della democrazia è tornato più volte nel magistero dei Papi. Dopo le importanti parole di Giovanni XXIII sui diritti universali e sulla promozione della donna, Paolo VI ha scritto che la democrazia[3] “trova nel Vangelo non solo incoraggiamento ma sostegno”[4]. E ha reinterpretato la famosa frase di San Paolo, generalmente utilizzata per affermare l’autorità, scrivendo che “la Chiesa ci ricorda l’origine divina dell’autorità e insegna a quanti la esercitano che il loro potere è limitato dai diritti della coscienza e dalle esigenze dell’ordine naturale voluto da Dio”. Democrazia vuol dire limitazione del potere di chi comanda, perché la democrazia non é mai la dittatura della maggioranza. La Costituzione conciliare Gaudium et spes riconosce come “pienamente conforme alla natura umana che si trovino strutture giuridico-politiche che sempre meglio offrano a tutti e senza alcuna discriminazione, la possibilità effettiva di partecipare liberamente e attivamente sia alla elaborazione dei fondamenti giuridici della comunità politica, sia al governo della cosa pubblica, sia alla determinazione del campo d’azione e dei limiti dei differenti organismi, sia alla elezione dei governanti”[5]. Giovanni Paolo II ha dedicato molta attenzione al tema della democrazia nell’enciclica Centesimus Annus e Benedetto XVI, già prima di essere eletto, ha affermato che “la garanzia della collaborazione nella formazione della legge e nell’equa gestione del potere è il motivo fondamentale a favore della definizione della democrazia come la forma di ordinamento politico più adeguata”[6] per tornarne poi a parlarne anche da Papa[7]. Sulla linea dei precedenti Pontefici, anche per Papa Francesco la democrazia è importante e va difesa. Ma si distingue dai suoi predecessori perché è il primo Papa a confrontarsi con un fenomeno nuovo: la crisi della democrazia. Basta pensare al troppo poco ascoltato messaggio che viene dall’astensionismo, crescente, ormai arrivato a proporzioni che devono imporre a tutti risposte adeguate sia nella credibilità e serietà della politica sia nella Legge elettorale che evidentemente, insieme ad altri problemi, aumenta la disaffezione. Fin dal 2011 l’Arcivescovo di Buenos Aires parlava di “divorzio tra governanti e popolo”, di “democrazia a bassa intensità”, di degenerazione della politica[8]. “Mantenere viva la realtà delle democrazie” è la “sfida che oggi la storia vi pone”, ha detto dieci anni fa Papa Francesco ai deputati del Parlamento europeo[9]. La globalizzazione, notava, “colpisce la vitalità del sistema democratico depotenziando il ricco contrasto, fecondo e costruttivo, delle organizzazioni e dei partiti politici tra di loro”[10]. Democrazia, infatti, è un sistema politico-istituzionale che implica anche un ricco pluralismo sociale e culturale, mentre la globalizzazione svuota le società di tale pluralismo, indebolisce o addirittura azzera quei corpi intermedi che ne garantiscono la vitalità a tutti i livelli e che sono l’humus vitale della democrazia: la Chiesa li conosce bene, e essa stessa ne fa parte. Difendere la democrazia, dunque, vuol dire vitalizzare i corpi intermedi: proprio l’opposto di ciò che è accaduto negli ultimi decenni, anche per responsabilità degli stessi corpi intermedi che hanno perduto la loro carica ideale, non solo in Italia.
Non basta più saldare élite e popolo: è in corso, infatti, un’erosione che svuota tutt’e due. Per quanto riguarda le élite, è difficile oggi immaginare, per usare le parole di Pio XII, uomini e donne “spiritualmente eminenti e di fermo carattere, che si considerino come i rappresentanti dell’intero popolo”. La crisi della democrazia non è solo crisi di classi dirigenti, è anche crisi dei popoli: crisi, cioè, di vincoli di solidarietà che fondano legami stabili; del senso di un destino condiviso; della volontà di costruire una casa comune anche per le generazioni a venire; in cui ai più deboli sia rivolta particolare attenzione ecc. Crisi, come detto, dei corpi intermedi che ai popoli danno voce. È quella denunciata da Papa Francesco nella Fratelli tutti e, nuovamente, nella recente Lettera sull’importanza della storia e della memoria[11]. La globalizzazione, ha scritto, produce una sorta di “decostruzionismo”, suscita un “bisogno di consumare senza limiti” ed esaspera “molte forme di individualismo senza contenuti”[12]. Denunciarlo non vuol dire rifiutare la crescente interdipendenza che caratterizza oggi l’economia mondiale, né auspicare il ritorno a forme di autarchia, di protezionismo, di chiusura delle frontiere. Ma riconoscere gli effetti problematici della globalizzazione sulla vita di miliardi di persone. Tra le conseguenze, ad esempio, c’è il passaggio dal “noi” all’“io”. Invece, come dice Papa Francesco, “la società è più della mera somma degli individui”[13] e parlare di popolo serve a ricordare “fenomeni sociali che strutturano le maggioranze […] mega-tendenze e aspirazioni comunitarie […] obiettivi comuni, al di là delle differenze”, l’ esigenza di “un progetto condiviso”[14]. È “molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo”, aggiunge[15]. Di qui l’importanza del sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare’”, scrive nella Fratelli tutti[16]. Papa Francesco non “santifica” il popolo: non crede affatto “che tutto quello che fa il popolo sia buono”[17], né lo mitizza attribuendogli una inscalfibile sostanza etnica o ideologica. I popoli non sono per lui le nazioni nel senso di “invenzioni” politico-culturali[18] che i nazionalisti creano – pretendendo che siano eterne – per contrapporre popoli diversi o per dividerli al loro interno tra un popolo “vero” (noi, i patrioti) e chi non è degno di farne parte (loro, gli anti patrioti). Per lui i popoli hanno un’identità storica. “Il popolo si fa in un processo, con l’impegno in vista di un obiettivo o un progetto comune”[19] che “vada oltre gli interessi e i desideri personali”[20] e coinvolga più generazioni[21]. Costruire la comune appartenenza che chiamiamo popolo “è un lavoro lento e arduo”, “esige di volersi integrare e di imparare a farlo”, “sviluppare una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia”[22]. Non a caso Papa Francesco privilegia l’incontro con i movimenti popolari, espressione di partecipazione che può apparire disordinata o non ancora definita ma che rappresenta la partecipazione degli esclusi, l’emersione di istanze di giustizia e di lotta alle disuguaglianze che sono così vicine alla dottrina sociale della Chiesa. L’appartenenza ad un popolo non è esclusiva o aggressiva e, in quanto costruzione che si sviluppa nel tempo, esige sempre apertura al futuro. Usare questa parola, insomma, è un modo – certamente non l’unico – per declinare la parola prossimo. Ma Papa Francesco sottolinea anche che “dalla metà del secolo scorso, superando molte difficoltà, si è andata affermando la tendenza a concepire il pianeta come patria e l’umanità come popolo che abita una casa comune”[23]. Anche l’umanità tutta, dunque, può, anzi deve diventare un unico popolo se vuole affrontare insieme le grandi sfide che ci riguardano tutti. Come dissi alla Settimana Sociale di Trieste, lo scorso luglio, “i cristiani prendono sul serio la patria, tanto che sono morti per essa, ma sanno anche che c’è sempre una patria in cielo e questo ci rende familiari di tutti e a casa ovunque”. La fraternità universale è l’orizzonte sempre del cristiano e enfatizza quella specifica, ma le dà l’indispensabile cornice che permette di comprendere il valore individuale, il dono che si è e che, sempre, si comprende non sopra gli altri, senza, contro, ma solo insieme. È il relativismo cristiano che si contrappone a quello del mondo individualista, che piega tutti all’io, idolatria che brama di possedere, di misurarsi, di vincere da solo perché centro di tutto.
Frutto di una saggezza emersa faticosamente dopo secoli di errori e tragedie, la democrazia è uno strumento che aiuta i popoli nel loro difficile cammino. La sua crisi non può lasciarci indifferenti. Favorisce infatti il rispetto per tutti, l’inclusione di chi è marginale, l’armonia tra o diverso, la promozione di sinergie e l’apertura verso il futuro. E non è un caso che la democrazia di cui parla la Costituzione non solo rifiuti qualunque discriminazione, ma imponga anche la rimozione degli ostacoli che impediscono all’uguaglianza formale di diventare anche sostanziale. È stata questa “politica della Costituzione” a tenere uniti gli italiani per molti decenni. La democrazia, insomma, aiuta cioè il processo di formazione dei popoli, di cui parla Papa Francesco come soggetti collettivi insieme coesi e plurali e quindi in grado di governare sé stessi.
Nell’ultima Settimana Sociale ho indicato una serie di problemi che è urgente affrontare per aiutare tanti italiani e tante italiane. A partire dal lavoro, quello buono, la casa, l’istruzione che sola può garantire di fare funzionare di nuovo l’ascensore sociale e soprattutto di dare a chiunque la chiave per entrarvi, la sanità che non può smettere di essere per tutti l’eccellenza. So bene che i risultati non vengono dall’oggi al domani, ma la politica – diceva don Milani – è affrontare insieme i problemi. E fare politica come amore politico, è già un risultato in sé. Significa avere una speranza comune e un progetto condiviso. Per affrontare una crisi della democrazia che è anche “crisi di popolo”, occorre trasformare l’Italia in un grande cantiere cui contribuiscono tutti, in funzioni diverse ma con obiettivi comuni. Tutti debbono imparare a cercare, davanti alle terribili sfide che ci troviamo ad affrontare, a cercare quello che unisce. Il Censis ha fotografato un’Italia intrappolata sulla linea del “galleggiamento”: “senza ammutinamenti”, ma in una “sequela di disincanto, risentimento, frustrazione, senso di impotenza, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole…”. È necessario per tutti, specialmente sulle grandi riforme, continuare a cercare l’unità, faticosa certo, ma indispensabile perché – solo se condivise – le riforme potranno corrispondere alla necessità di un cambiamento che garantiscano lo spirito della Costituzione che tanta democrazia ha garantito in questi decenni.
Abbiamo detto a Trieste: “ci impegniamo per risposte positive, consapevoli, condivise, possibili”[24]. Siamo, perciò, “contenti quando i cattolici si impegnano in politica a tutti i livelli e nelle istituzioni”: rafforzano la democrazia, e portano in essa quella dottrina sociale della Chiesa che mette davvero al centro la persona e non permette che la politica sia piegata a interesse personale o di parte. Esprimendo un cattolicesimo che pensa ed opera “non per sé ma per il bene comune del popolo italiano”[25], anche i Vescovi italiani hanno manifestato più volte la volontà “della Chiesa di essere presente e solidale in ogni parte d’Italia, per promuovere un autentico sviluppo di tutto il Paese”. Ciò avviene anzitutto difendendo il diritto alla vita di tutti, dalla nascita alla morte, in particolare tutelando i nascituri e proteggendo gli anziani. E prosegue con l’opera instancabile, incoraggiata e sostenuta dalla Chiesa sostiene, di tanti che contribuiscono – come è emerso alla Settimana Sociale di Trieste – a rendere più unito, più sereno e, in definitiva, più felice il popolo italiano. Sempre con il rispetto che va garantito anche ai colpevoli per non perdere la dignità delle Istituzioni. La Corte costituzionale ha ribadito recentemente l’unità e indivisibilità della Repubblica, indicano la solidarietà tra le varie parti del Paese e l’uguaglianza dei diritti dei cittadini, che deve essere cooperativo e non conflittuale. Nell’opera essenziale di tessitura dell’unità del popolo italiano, così necessaria per garantire la diversità, un ruolo centrale spetta al Parlamento, che ha il compito di mediare tra interessi diversi perseguendo il bene comune. Pio XII definiva la “rappresentanza popolare” il “centro di gravità” della democrazia.
Ho parlato molto dell’Italia, ma sappiamo tutti che i suoi destini non sono separabili da quelli di tutto il mondo e in particolare dell’Europa. Il popolo italiano ha un futuro solo insieme ai popoli europei. La patria Europa. Sono davvero tante le questioni per cui è evidente la necessità per i Paesi europei di cooperare strettamente su problemi che da soli nessuno è in grado di affrontare, dal futuro del welfare alle strategie di sviluppo industriale e ai rapporti commerciali con il resto del mondo, dall’innovazione tecnologica alla regolamentazione del web, dalla transizione ecologica all’immigrazione, fino a una difesa e a una politica estera comune se si vuole davvero contare nel mondo. Non dimentichiamo che occorre perdere sovranità, non riprenderla, per sapere come risolvere i conflitti non con la guerra. Nel dopoguerra, le classi dirigenti europee hanno saputo cooperare insieme nell’interesse dei loro Paesi, innestando una novità storica: il processo di progressiva integrazione, cioè pensarsi insieme. Perché questo avvenga occorre recuperare l’anima, altrimenti si riduce a rissoso condomino e riduce diritti per tutti a quelli talmente individuali da arrivare a difendere tutte le varianti della vita ma non la vita stessa. La spinta per l’Europa venne dall’esigenza di garantire la pace, dopo secoli di guerre e violenze paurosamente autodistruttive. Ma fin dall’inizio, come sottolineò De Gasperi nel discorso del 1948 a Bruxelles, l’unità europea è stata pensata anche in difesa delle democrazie nazionali. Occorre recuperare questo spirito degli inizi, che saldava democrazia e pace, come Pio XII nel radiomessaggio del 1944. È necessario che popoli ed élite convergano in una grande visione comune. Ci vogliono classi dirigenti determinate e società europee che lo sostengano. L’una e l’altra hanno bisogno di corpi intermedi convinti sostenitori del processo di integrazione europeo. La Chiesa cattolica, non solo in Italia, è pronta a fare la sua parte. Ma occorre una partecipazione più larga, una rete non solo di singoli ma anche di soggetti collettivi: sociali, economici, culturali, religiosi. Ecco cosa volevo dire quando parlavo di una “Camaldoli europea”.
C’ è chi paragona il tempo attuale con la crisi degli Anni Trenta del secolo scorso, un periodo buio per la democrazia. Con il Radiomessaggio del 1944, Pio XII manifestò la volontà della Chiesa di aiutare i popoli ad uscire da quella crisi e a voltar pagina rispetto alla guerra. È la strada che dobbiamo percorrere anche oggi. Spesso diciamo che è oggi difficile sperare. La pace nel mondo sembra molto lontana. Ma nel 1944 Pio XII seppe capire i segni dei tempi, cogliendo un’“antitesi strana” nella “coincidenza” tra l’asprezza di una “guerra senza precedenti” e sempre più diffuse “aspirazioni” a una “pace solida e durevole”. Invece di ripetere che è difficile sperare, dobbiamo convincerci che è necessario farlo se vogliamo affrontare le difficoltà. Se, cioè, vogliamo cambiare la realtà in noi e intorno a noi, come appare sempre più urgente. Alla speranza ci chiama questo tempo di Avvento.
Che il prossimo Natale sia per noi occasione per ripartire dalla speranza. Il prossimo anno giubilare ci ricordi che siamo pellegrini e che abbiamo una speranza di cui rendere conto ad un mondo così segnato dalla disillusione. Ne serve in abbondanza, di quella vera, nutrita di tanto senso della storia e che deve diventare amore politico, progetto per combattere le cause della povertà, della violenza, delle ingiustizie.
[1] Radiomessaggio Natale 1944
[2] Il Papa vede popoli che “edotti da un’amara esperienza, si oppongono […] ai monopoli di un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile” e chiedono “un sistema di governo […] più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini”, Radiomessaggio Natale 1944.
[3] Per Paolo VI la democrazia andava intesa come “società di persone libere, uguali in dignità e che godono di diritti fondamentalmente uguali”; in cui “coloro che detengono il potere non si abbandonano all’arbitrio oppure al favoritismo, non perseguono il proprio vantaggio, ma quello del paese”; e “a questo fine ammettono controlli necessari esercitati dalla rappresentanza nazionale e imposti dalle leggi fondamentali, liberamente accettate”, oltre ad esercitare la loro autorità in modo “imparziale e forte, manifesta[ndo] preferenze soltanto verso i più deboli”.
[4] Paolo VI, Les Prochaines assises, 2 luglio 1963.
[5] GS 65.
[6] J. HABERMAS e J. RATZINGER, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, Venezia 2005, p. 68.
[7] Discorso di Benedetto XVI ai partecipanti all’Incontro promosso dall’internazionale Democratica di Centro e Democratico Cristiana, 21 settembre 2007.
[8] Jorge Mario Bergoglio, Noi come cittadini. Noi come popolo. Verso un bicentenario in giustizia e solidarietà, Jaka Book, Milano 2013, pp. 31-32.
[9] Per evitare, spiegava, “che la loro forza reale – forza politica espressiva dei popoli – sia rimossa davanti alla pressione di interessi multinazionali non universali, che le indeboliscano e le trasformino in sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi sconosciuti”, Francesco al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
[10] Francesco al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014. Qui denunciava anche il rischio di “confondere la realtà della democrazia con un nuovo nominalismo politico”, occultando la realtà dietro “i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza” (EG 231)
[11] Lettera di Papa Francesco sul rinnovamento dello studio della storia della Chiesa, 21 novembre 2024.
[12] FT 13, Lettera sulla Storia.
[13] FT 157.
[14] Cfr. EG 221-232.
[15] Cfr. EG 221-232.
[16] Cfr. EG 221-232.
[17] A. Spadaro, «Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco», in Papa Francesco, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires (1999-2013), Milano, Rizzoli, 2016, XV-XVI.
[18] Cfr. Anderson Gellner Hobsbawm.
[19] A. Spadaro, «Le orme di un pastore. Una conversazione con Papa Francesco», in Papa Francesco, Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires (1999-2013), Milano, Rizzoli, 2016, XV-XVI.
[20] EG 61.
[21] EG 220.
[22] EG 220.
[23] LS 164.
[24] Card Zuppi a Trieste, luglio 2024.
[25] Card Zuppi a Trieste, luglio 2024.